Il professor Vittorio Pappini insegna judo a scuola da una decina di anni,durante i quali ha avuto positive esperienze con i disabili psichici. Questa è la sua relazione al Congresso Internazionale del Comitato Nazionale Insegnanti Di Sostegno svoltosi a Milano nellanno 2000.Le tematiche ivi trattate sono a tuttoggi di grande attualità tanto che nel 2003 questo ed altri interventi sono stati conglobati in un libro intitolato"La rete educativa tra scuola e servizi socio sanitari" (raccolta a cura di Olga Liverta Sempio, Carrocci Editore) nella sezione approfondimento Intervenire nelle situazioni di disagio delletà evolutiva-
Nell'ambito dell'AISE raccomandiamo di tenere separate le categorie degli "psichici", dei "caratteriali" e dei "down/ritardati-mentali". Questa distinzione non è presa in considerazione dalla teoria medica e psicologica diffusa nell'ambiente, ma diventa una necessità per chi opera. E non riguarda solo il judo, ma tutta l'attività fisica.
Così siamo impegnati a sostenerla, a proporla all'Autorità. Suggerendo alle USL e ai CSE, alle strutture assistenziali dei Comuni, alle Comunità del settore, di non formare corsi di attività fisiche e di non partecipare ad avvenimenti come gare o manifestazioni, in cui queste categorie di disabilità vengono mescolate. In particolare, naturalmente, di non mescolarle nei corsi di judo in cui, allo stato attuale delle nostre conoscenze, appare evidente che l'insegnamento ai down/ritardati mentali può essere facilmente gestito da un esperto di judo titolato; quello ai caratteriali richiede una formazione psicologica superiore; e infine l'insegnamento del judo agli psichici può avvenire solo in circostanze particolari in cui alla preparazione dell'insegnante si affianca la collaborazione di specialisti e un ambiente idoneo.
Questa proposta, nata dall'esperienza, è uno degli argomenti di cui vorremmo parlare con gli esperti nostrani e stranieri invitati al prossimo Congresso di settore dell'AISE che si svolgerà nell'autunno 2003, alla conclusione dell'Anno Europeo del Disabile.
La responsabile AISE per i Disabili,
Elena Ribotta
Oltre lo sport: esperienza di educazione dei disabili psichici
attraverso la pratica del Judo
Premessa
Da molti anni svolgo attività di judo e lo insegno a bambini, ragazzi ed adulti. Iniziando come sportivo e partecipando anche a gare, dopo molti anni ho scelto di insegnare nelle scuole ed in altri contesti educativi applicando il metodo di judo tradizionale così come pensato dal suo ideatore e concentrandomi sullaspetto del judo - educazione.
Quando ebbi uno spazio dove insegnavo attività sportiva decisi di proporre judo al corso per disabili psichici, ed ottenni di sperimentarlo. Oggi sono circa dieci anni che svolgo questa pratica in gruppi solo per disabili od anche misti, e continuo a ritenere la sua applicazione un valido supporto per leducazione allautonomia ed alla socialità per ragazzi con problemi psichici e non solo.
Tale esperienza si è sviluppata e fu da me iniziata sulla spinta anche di altre esperienze svoltesi a livello internazionale.
Il fondatore del judo educazione fu il Sig. Kano, uomo politico e di pensiero vissuto in Giappone a cavallo tra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo. Egli praticò le arti marziali (così come le chiamiamo noi), ma per molto tempo fu anche alto funzionario del Ministero della Pubblica istruzione in un paese dalle grandi contraddizioni culturali.
Kano cercò di affrontare il senso delleducazione e della morale in una cultura dove forza e sopraffazione con la violenza rappresentavano i mezzi privilegiati per farsi rispettare.
Con lui la tecnica della lotta per la sopravvivenza attraverso le tecniche di combattimento si trasformò in un principio morale alla ricerca del benessere sociale tramite il concetto di "tutti insieme per crescere e progredire con il migliore impiego delle energie" (J. Kano, 1923)1.cialis1.Disfunzione erettile1.
Per comprendere meglio il concetto di judo-educazione è necessario approfondirne il significato.
Non è facile accostare questi due termini, anche a fronte del fatto che in Italia ( ed in tutti i paesi occidentali) esso viene associato allo sport e quindi alle prestazioni fisiche nonché alla gara finalizzata alla acquisizione di un premio ( la cintura o la medaglia)
Il Judo del Signor Kano, che per distinguere da judo-sport della federazione CONI talvolta è chiamato judo-educazione, è definito come: educazione, cultura e poi anche sport.
Linsegnamento del judo si presenta in senso figurato come costruire una casa:
Per "fondamenta" si sottolinea che insegnare a combattere non riguarda il combattimento sportivo, la difesa personale, né tanto meno il combattimento delluomo contro luomo. Essa è dare "lesperienza spirituale" fatta dal guerriero nel corso dei millenni, potenziando aspetti come il coraggio, la tecnica, lintuizione dellazione, la fede nellideale, per contrastare gli aspetti negativi del mondo, che si oppongono alla serena crescita di tutti e di tutto.
Se tradizionalmente il judo si presenta come un confronto di abilità tra praticanti, da questa pratica vanno escluse tutte le azioni che potrebbero danneggiare il corpo, la mente ed il cuore.
Per "pareti" consideriamo leducazione fisica come lo sviluppo delle potenzialità del corpo ai fini di una vita operosa e costruttiva nel rispetto dei limiti di ogni singolo individuo. Non come potenziamento "dellego", cioè per apparire prestanti o per una prestazione atletica; ma, nel rispetto dei limiti, dare a tutti la possibilità di dimostrare la spendibilità delle energie in campo lavorativo, creativo, solidale, sentimentale e nella ricerca dellavventura.
Il "tetto", cioè il principio morale "il migliore impiego dellenergia" è indirizzata a "tutti insieme per crescere e progredire", che non esitiamo a riassumere nel concetto di "bene" allargato a tutti gli esseri umani, alla vita della natura, al mondo, allinvisibile che ci circonda e, perché no, allinconoscibile nella dimensione che comprende presente passato e futuro.
Faccio tale premessa perché penso che molti si chiederanno come mai si accostino le due parole: judo ed educazione e come mai si possa pensare di svolgere una tale attività con dei disabili psichici.
Vi chiedo, insieme a me, di dimenticare tutto ciò che pensate su questa pratica , se mai labbiate svolta o se mai ne abbiate immaginato qualcosa, e di seguire unidea attraverso la quale cercherò di far comprendere quanto judo ed educazione siano vicini ed, allo stesso, tempo in dialettica continua.
Per meglio chiarire analizzerò le componenti che intercorrono in un lezione di judo: ruolo e compito del maestro; relazione tra maestro e allievo; il "principio di realtà" come elemento significativo dellapprendimento della pratica portando esempi anche di esperienza diretta in cui nominerò i miei allievi con nomi fittizi.
Infine, vi invito a "partecipare" ad una esperienza pratica nel tentativo di cogliere cosa può suscitare nei ragazzi lo svolgimento di una lezione e quali aspetti si vanno a toccare.
Mettendo a confronto la scuola e la palestra sono emerse delle similitudini e delle diversità sul piano dellapproccio educativo. Alcuni aspetti calzano bene per il lavoro con tutti, non solo con i disabili e non solo con gli psichici.
Forse non a caso non si può fare una distinzione così netta tra gli individui (anche se certi aspetti rimangono peculiari delle singole problematiche), poiché quando si parla di educazione, prima di ogni caso singolo, si parla di persone e della dignità che ogni singolo individuo, con o senza handicap, porta in sé.
1. Il maestro.
La parola maestro è impegnativa: essa viene dal latino Magister2 e possiede 3 significati, con altrettanti sinonimi che mettono in guardia sui "pericoli " di tale parola.
Da questi significati si può dedurre che, a seconda del suo esercizio, il maestro può condurre all'estremo di un'idea, ma può anche accompagnare verso una strada od un'altra, in base allo scopo che si prefigge.
Un maestro di judo, secondo i principi dettati dal Sig. Kano, dirà ben poco, ma "farà molto".
Attraverso il fare lallievo può prendere esempio, imitare , ma anche fare propri un comportamento in modo immediato e diretto.
Oggi molti possono essere maestri e molti allievi, ma questo non è un argomento da prendere alla leggera. In una relazione allievo/maestro bisogna riconoscersi reciprocamente tali; é lì che inizia la "dialettica" tra due individui, una relazione che sostanzia l'apprendimento in qualcosa di più della trasmissione di una tecnica .
Per migliore comprensione vorrei fare lesempio della differenza tra insegnare a leggere ed educare alla lettura. Nessun buon maestro si riterrebbe soddisfatto sino in fondo se il proprio allievo comprendesse i tratti grafici ma alla fine non aprisse mai un libro animato dalla sua curiosità di "sapere" cosa c'è dentro. Il maestro di judo lo dobbiamo immaginare così: uno che non si ferma ad insegnare una buona tecnica, ma intende trasmettere una pratica attraverso la tecnica che ne è solo lo strumento.
Sappiamo bene che non si può prescindere dalla tecnica, così come non si può prescindere dal riconoscere i segni grafici, codificarli e metterli in sequenze che trasformino questi segni in parole e le parole in idee. La tecnica è importante ed essa ha le sue regole , le sue tappe di apprendimento , i suoi modi per essere trasmessa e , se si vuole, esaltata. Il maestro di judo, pur non prescindendo da essa non ne fa il suo obiettivo principale, bensì uno strumento utile.
Un altro punto fondamentale del suo operare è la valutazione dei risultati. Come giudicare i risultati ? come giudicare un buon apprendimento? Il sig. kano teneva presente varie valutazioni nei suoi esami:" abilità tecnica e comprensione generale della disciplina, personalità, cultura ".( J. Kano)
Egli non amava le specializzazioni e , forse , come insegnante avrebbe giudicato un buon lettore non il raffinato amante della poetica dantesca , non il lettore di sonetti ma l'autodidatta, con la passione per i fumetti , l'opera omerica o Agata Christie.
Non risulta affatto riduttivo ritenere che non è il raggiungimento di una forma esecutiva corretta ed elegante od una buona prestazione atletica che rende soddisfacente il lavoro in palestra, quanto piuttosto la pratica stessa a seconda delle capacità e risorse che ognuno sa investire.
Con ragazzi disabili tale approccio diventa quasi prioritario (e questo, mio parere, vale per ogni campo di attività). La valutazione dei risultati non si può ridurre al conseguimento della cintura ( passaggio di grado) quanto al raggiungimento di quegli obiettivi che il singolo ha individuato insieme al suo maestro; e che hanno sostanziato la ricerca del loro raggiungimento durante la pratica stessa.
Bisogna quindi sganciarsi dalla logica premiante (o meglio competitiva) per entrare in un ambito più completo: integrato in tutti gli aspetti della persona.
2. La relazione allievo/maestro
Tra allievo e mastro intercorre una relazione, quindi il maestro e lallievo faranno entrambi fatica anche se su piani differenti; proveranno entusiasmo anche se con intensità differente; proveranno noia anche se in momenti differenti.
Il maestro di judo si incontra con l'allievo sul piano delle umane fatiche , gioie e noie quotidiane.
Chi lavora ed insegna ai ragazzi disabili, deve essere, inoltre, attento alla condizione di handicap, deve essere, cioè, uno che sappia chi ha davanti a sé.
Il maestro deve essere attento agli equilibri precari del singolo soggetto e dell'armonia che si deve creare sul tatami (la materassina su cui si pratica il judo) nell'interazione fra gli allievi.
Egli non cerca di forzare ma trova sempre nuovi spunti per spronare ad apprendere o per superare delle questioni difficili, anche attraverso un approccio individualizzato.
Il suo obiettivo primario deve essere quello di creare un ambiente sereno di apprendimento ed un Luogo di benessere per tutti.
A tale proposito può essere desempio il lavoro con Rino, un giovane psicotico di 15 anni.
Il suo atteggiamento in palestra era molto centrato sulla prestazione ed esibiva a tutti i suoi muscoli che venivano "allenati" quotidianamente con lesercizio dei pesi. Effettivamente la sua prestanza fisica era reale e lui negli esercizi poneva un impegno notevole risultando un ragazzo con buone capacità e buona tecnica.
Nel momento in cui il mio allievo non riusciva ad eseguire un esercizio e veniva ripreso, reagiva in modo autolesionista: si strappava dei lembi di vestito o si produceva delle ferite.
Era chiaro che sarebbe stato molto difficile affrontare questo aspetto solo attraverso la repressione o levitamento del problema, tanto meno si sarebbe raggiunto lo scopo concentrandosi su quellaspetto e dimenticando quanto egli fosse comunque portato ed interessato alla attività.
Decisi quindi di dedicare molto tempo a lui non mettendolo nella situazione di sentirsi solo davanti alla prestazione e scegliendo di fare gli esercizi in coppia con lui invece di farlo lavorare con un compagno.
Il fatto che io lo scegliessi per fare gli esercizi aumentava la sua autostima: agli occhi suoi e dei compagni era molto gratificante essere scelto dal maestro per gli esercizi in coppia, voleva dire essere in grado di misurarsi con lui.
Il lavoro con me permetteva di ridurre lansia grazie al fatto che la mia capacità adattativa negli esercizi diminuiva lerrore nellesecuzione.
Il contatto corporeo con me lo tranquillizzava data la mia capacità di controllo, nettamente superiore a quella dei suoi compagni.
La riduzione dellansia e laumento dellautostima lo hanno portato ad appassionarsi al judo, praticandolo continuativamente negli anni e riducendo notevolmente gli episodi di autolesionismo.
3. Il principio di realtà.
Il maestro usa un principio semplice e complicato allo stesso tempo: il principio di realtà.
Realtà: tutto ciò che esiste. La parola si traduce in Veritas o Natura3 , nel significato latino essa rappresenta tutto ciò che esiste , cioè una cosa difficilmente confutabile , difficilmente negabile . Ecco cos'è il principio di realtà: qualcosa che anche volendo non si può negare. Esso si può fare agire dalle circostanze o è possibile indurlo attraverso l'esperienza. Non si può eludere, a meno che non si voglia fuggire dalla realtà stessa. In parole semplici esso si traduce nel trasformare il proprio lavoro in un compito che aderisce il più possibile alla realtà che si ha di fronte. Nel processo di apprendimento non c'è evitamento del problema , non c'è esaltazione della forma o del sentimento , c'è solo "tutto ciò che esiste" , la Veritas , la realtà di ciò che si sta facendo "qui ed ora".
In questo modo nessun allievo verrà preferito ad un altro , nessuna forma ( lesecuzione dellesercizio) verrà preferita ad un'altra se non quella che, per quell'allievo, rappresenta un gradino in più verso il suo miglioramento fisico e psicologico.
Il richiamo allattività o la correzione di un esercizio deve attenersi a ciò che si vede, non può essere svalutativo o premiante deve attenersi ad una forma.
4. Lesperienza pratica.
Lesperienza si riferisce ad un gruppo di 10 adolescenti psicotici maschi e femmine, dai quattordici ai diciotto anni, che svolgono lattività di Judo nella palestra di una scuola.
Non penso si possa definire unesperienza molto comune sia per quelli che frequentano le palestre che le scuole.
La spinta ad attuare tale attività è stata motivata proprio dalla possibilità di utilizzare il judo non solo come sport, ma anche di svolgere la pratica come judo educazione.
La palestra in cui si pratica il judo ha vari spazi:
Ognuno di questi spazi richiede regole di convivenza e buone norme di igiene oltre che un certo grado ti autonomia nella gestione di sé e di sé in relazione agli altri.
Ad una prima osservazione ci si potrebbe domandare cosa può permettere il fatto che questi ragazzi e ragazze stiano sopra il Tatami con il rigore e lattenzione di qualsiasi altro "normale" allievo di una palestra, e con lentusiasmo di quelli che scoprono una cosa nuova.
Uno solo di questi ragazzi (ragazzi con handicap psichico), in una classe rappresenterebbe una sfida continua per il suo insegnante; si sa che è necessario catturare la sua attenzione; saper proporre un argomento adeguato alle sue capacità; approcciare con latteggiamento giusto; saper fronteggiare i conflitti tra i desideri di quellallievo e le regole fatte da e per i ragazzi "normali".
Chi sa cosè la psicosi o più in generale, se si vuole, lhandicap, sa che la sfida del professore di classe è la sfida giornaliera di tutti quelli che lavorano o vivono insieme a questi ragazzi, quindi nulla deve essere dato per scontato e lasciato al caso, neanche in palestra. Sarebbe molto superficiale dedurre che tutto è più semplice perché al posto dei banchi ci sono dei "materassi" e al posto del professore cè un individuo con uno strano vestito bianco e a piedi nudi,
Cercherò di affrontare per punti quegli aspetti che possono rappresentare spunti di riflessione relativamente al significato educativo che può avere lattività di Judo con questi ragazzi. così problematici.
4.1 La norma e la regola
Provando a fare un paragone tra il contesto della classe e quello della palestra, si potrebbe obiettare che essi sono due contesti differenti e, pertanto, difficilmente paragonabili. Tuttavia, le regole che, sostanzialmente, normano la convivenza sociale in uno spazio, se pur diverse (perché lo spazio è diverso), esistono. Pertanto lo sforzo di regolare i propri bisogni su degli schemi fissati da altri diventa necessario.
Nel caso del tatami, la regola rappresenta il limite del "rispetto che tu devi a me e che io devo a te"; mentre nella classe la regola è gestita spesso, purtroppo, da un adulto e da lui dipendono le variazioni della stessa, qui la norma viene seguita senza gerarchie di sorta, tutti sono soggetti alla regola per il "benestare" di tutti. Muoversi incautamente o non prestare attenzione verso gli altri può significare farsi del male. In questo caso la trasgressione crea uno scompiglio che ritorna come un boomerang su chi la attua.
Non si può pensare che non ci siano trasgressioni alla regola (il che sarebbe preoccupante), ma sicuramente lambiente del tatami rappresenta uno spazio fortemente "controllato" non dallesterno, ma da ogni singolo presente sulla materassina. Si può definirlo, perciò, un ambiente responsabilizzante.
Ognuno deve, in prima persona, contribuire a stabilire una condizione di buona convivenza allo scopo di esercitare la pratica anche divertendosi oltre che con il senso di responsabilità
4.2 Il corpo tuo e dellaltro
Osservando la situazione da spettatore, alcuni degli elementi che saltano allocchio del semplice osservatore esterno sono: labbigliamento; il contatto con laltro; il contatto diretto; lautonomia.
Si sta in un abbigliamento semplice e senza molte "difese", niente scarpe e calze; niente indumenti ingombranti e protettivi; niente di tutto quello che può giocare sullimmagine o lo stato sociale (più o meno ben vestiti), insomma ci si presenta così come si è, azzerando alcune diversità. I ragazzi ed il maestro, infatti, portano il judogi4
Si può capire, così che il proprio corpo è in una "posizione di difesa" visto che per certi versi è più vulnerabile, ma allo stesso tempo ha le stesse chance degli altri, ha gli stessi punti deboli ed ha le stesse potenzialità.
Giocare su una eguaglianza iniziale, anche se poi ognuno di noi è diverso, è una cosa molto rara.
In genere difficilmente ci si confronta nel mondo ad "armi pari" anzi, spesso la divisa od il ruolo sono occasioni per utilizzare un potere che si da per acquisito. In questo luogo ognuno può "giocare le sue carte"; ciò è importante per dei soggetti generalmente abituati ad avere scarso peso sociale ed a sentirsi spesso in posizione di dipendenza da altri.
Nella pratica ci sono esercizi da svolgere singolarmente ed in coppia, sino ai combattimenti; in questo modo si entra in contatto corporeo diretto con laltro. Un contatto senza mediazioni (come si diceva sopra) e soprattutto non casuale. Come si può allora garantire a tutti la possibilità di mettersi in gioco?
Ci sono delle tecniche, ancora delle regole da rispettare e una norma di comportamento allinterno del concetto generale del rispetto reciproco. In questo senso il contatto non casuale garantisce uno schermo da prevaricazioni e da forme di eccessiva o incontrollata violenza.
Lautoregolazione o meglio, gli aggiustamenti necessari che si fanno tra il proprio e laltrui corpo sono ancora una volta mediati e rafforzati da una tecnica. Per intendersi, se mi permettete la similitudine, la differenza che passa tra la lotta coi cuscini e un gioco di scacchi ; se per la lotta coi cuscini basta aver voglia di giocare, per gli scacchi ci vuole anche la regola, la pazienza e la perseveranza, il regolarsi sullavversario/ compagno di gioco.
A questo punto si spazzano via le forme di prevaricazione, il gioco di forza e la supremazia del fisico, entrano in campo lastuzia, lattenzione, losservazione delle mosse dellaltro e lautoregolazione tra il proprio corpo ed il corpo dellaltro. Il caso contrario comporterebbe farsi male e non divertirsi.
Uno dei miei ragazzi possedeva una ottima capacità motoria, coordinamento eccellente ed una flessibilità del corpo con scioltezza dei movimenti quasi fuori dal comune.
Il suo problema maggiore era la paura. La paura lo pervadeva al punto da bloccarlo sul posto ed impedirgli i movimenti più semplici.
Appena percepiva un movimento rivolto verso di lui come minaccioso e lesivo della sua persona, il ragazzo "agile e scattante" si trasformava in un pupazzo immobile e rigido. La sua paura era irrazionale spesso immotivata sul piano oggettivo e sin da piccolo la sua autonomia nei movimenti era limitata da questo aspetto: non camminava sullerba, temendola.
Valorizzai molto la sua indole di "giocherellone" e la sua motricità e mediai il lavoro con i compagni richiamandolo alle regole del contatto che non poteva essere offensivo, ma solo "filtrato" da una forma esecutiva. Mano a mano le sue difese calarono anche grazie alla acquisizione di una padronanza tecnica e lesperienza che il contatto non gli produceva delle lesioni o del dolore.
La coscienza di essere capace di controllare il movimento dentro una forma prestabilita e di condurre il confronto con gli altri attraverso delle regole precise lo tranquillizzarono ma lo resero anche più sicuro di sé al punto di poter accettare il contatto con laltro e la lotta.
Il contatto col corpo dellaltro è diretto e pertanto è unesperienza molto rara, non solo per molti di noi, ma soprattutto per questi ragazzi.
Toccare laltro e sentire laltro da sé rappresenta uno dei momenti fondamentali della crescita dellindividuo. Molti di questi ragazzi vivono lesperienza del toccarsi spesso come traumatica o addirittura "lesiva" di una propria identità.
I contatti primari (essere abbracciato, la sensazione di essere protetto, baciato, accarezzato) quelli che tutti noi abbiamo avuto si dai primi momenti di vita e che sono il primo stadio della accettazione di sé e della differenziazione di sé dallaltro (in una fase successiva), sono state spesso esperienze traumatiche, difficili o chissà come interpretate da questi ragazzi nella loro prima infanzia.
In una fase come questa, cioè ladolescenza, al bagaglio dei vissuti precedenti si aggiunge il pudore del proprio corpo.
Affrontare lesperienza del contatto attraverso il gioco e la tecnica può facilitare lapproccio con laltro ma fondamentalmente (ed è questa la peculiarità delle persone con problemi psichici rilevanti) apre nuove prospettive alla scoperta di sé. Ciò può avvenire non attraverso la mediazione della testa, ma in "presa diretta" con il primo e più privilegiato canale di comunicazione col mondo esterno, e quindi con "laltro diverso da sé": il corpo nella sua interezza.
É molto difficile far comprendere un tale aspetto della pratica di apprendimento tuttavia posso fare un esempio molto emblematico di una vera e propria "esperienza psicotica " che mi è capitata con Gianluca.
Allinizio dellattività la prima cosa che viene chiesta ai ragazzi è il riscaldamento dei muscoli attraverso degli esercizi graduali. Il primo esercizio è la corsa leggera intorno alla materassina per una paio di minuti. Quel giorno chiesi come sempre di fare i giri di riscaldamento, ma non riuscii a farlo smettere.
Dovetti svolgere lattività con gli altri nonostante lui continuasse a correre.
Il corpo di Gianluca allora era come qualcosa di estraneo da sé. Egli sembrava non provare alcuna fatica né dolore; i suoi movimenti non era armonici si muoveva come un automa e dopo unora e mezza di corsa gli chiesi: "Non sei stanco?" ; la sua risposta fu: "No".
Umanamente, è impossibile reggere una corsa anche se non veloce per un tempo così prolungato, e mi venne spontaneo chiedergli perché non fosse stanco; egli mi rispose: "Io mi vedo dallalto".
Ci volle un anno prima che Gianluca iniziasse a sudare durante lattività, indicando così, maggiore presenza.
Gli spazi dello spogliatoio e della doccia fanno parte della palestra e rappresentano due momenti molto importanti per lavorare su se stessi e sulle autonomie personali.
Si richiedono competenze quale sapersi lavare, svestirsi e vestirsi, aver cura delle proprie cose, essere ordinati e avere rispetto delle cose altrui.
E una occasione ottima per osservare la presenza di tali competenze ma anche per svilupparle.
Si possono comprendere molti aspetti legati alla conoscenza dello schema corporeo ed eventualmente guidare il ragazzo attraverso indicazioni verbali o limitazione, nel caso che si scelga di svolgere le operazioni contemporaneamente a lui.
4.3 Approccio globale: il superamento del concetto di riabilitazione
Quanto sopra detto non può essere compreso se non in un ottica di "approccio globale".
Se ci rifacciamo ad un concetto "classico" di normalità e di malattia (concetto, purtroppo associato anche alla disabilità) troviamo da un lato coloro che, possedendo tutte le loro funzioni, saranno semplicemente aiutati a svilupparle e potenziarle; dallaltro il mondo di coloro a cui "manca qualcosa" ( lhandicappato ).
Usando questo concetto, si agisce, quindi, sulla malattia, cioé su quello che manca, trovandosi, quindi, subito in svantaggio. Per usare un triste gioco di parole, in handicap.
Dalla cultura che si rifà al cercare di colmare le lacune o le difficoltà, non è immune neanche il mondo dei "normali".
Un esempio emblematico può essere quello del bambino a scuola.
Se forse nei primi anni della scuola questo atteggiamento può sembrare meno accentuato nellarco del tempo si accumula la mentalità del recupero.
Latteggiamento educativo che mira al riempimento delle lacune dellallievo è così diffuso che ne diventano complici anche i genitori, oltre che gli insegnanti. Si pensi a quando ognuno di noi, (nel caso si abbiano dei figli), si reca al colloquio con gli insegnanti per sapere come va il proprio ragazzo. Nel migliore dei casi un genitore responsabile vuole sapere quello che il proprio figlio non sa fare, per aiutarlo ed evitargli le frustrazioni di un insuccesso. Non bisogna preoccuparsi, nessuno è immune dalla cultura del recupero, le cultura del recupero guarda a quello che manca.
Nel caso del disabile non cè neanche da domandarsi dove sta il problema perché il problema è sotto gli occhi di tutti ogni giorno.
Questo atteggiamento educativo alimenta, a mio parere, la cultura della riabilitazione e non aiuta ad affrontare la questione in termini di globalità.
Lapproccio globale non spezzetta la persona non la "cosifica", cioè non la fa diventare quella cosa che gli manca, ma rappresenta la lente dingrandimento delle potenzialità dellindividuo.
Si ritorna qui al punto di partenza, dove il corpo, la mente, le energie del singolo sono impegnate tutte insieme nella relazione col mondo esterno, ed il mondo esterno rimanda messaggi, azioni, reazioni, allindividuo.
In un confronto tra due persone sul tatami entrano in campo molti fattori che non sono solo un movimento, ma un complesso di fattori socio-affettivi (postura, disponibilità, relazione con laltro); motorii (tonicità, equilibrio, agilità, resistenza allo sforzo fisico); cognitivi (percezione spazio-temporale, coordinamento, lateralità); emotivi (reazione alla frustrazione, resa della prestazione, determinazione, rinuncia, difesa e attacco).
Attraverso la pratica del judo il corpo, la mente, laffettività, lemotività devono intervenire insieme per il raggiungimento dello scopo.
Il maestro deve garantire attraverso tutte le risorse a sua disposizione (tecnica, spazi esercizi ed attività) il percorso individuale dellallievo disabile.
NOTE
1) J. Kano: "Qualsiasi scopo vi poniate il miglior modo di ottenerlo sarà il miglior uso dellenergia direttamente rivolta ad ottenerlo". Egli fece questa dichiarazione nel 1923 esprimendolo come principio del Miglior Uso dellEnergia, che divenne la base ideale del Kodokan
2) Vocabolario Zanichelli Latino-Italiano : 1. Capo conduttore- direttore ordinatore; 2. Insegnante maestro precettore pedagogo; 3. Incitatore - istigatore
3) Vocabolario Zanichelli, Italiano-Latino: res vera
4) il judoji è un abbigliamento tradizionale per la pratica del judo
Riferimenti bibliografici