Rielaborazione di un articolo pubblicato su "LOttavo Giorno", rivista dellAssociazione Sindrome di Down di Verona (AGBD) - anno 4° nr. 1-2 Marzo / Agosto 2002.
FARE JUDO!
Riporto l'intervento introduttivo del prof. Marcello Bernardi al congresso "Judo, Down e altri" tenutosi presso il centro "Natura Docet" a Varallo Pombia nel 1992:
Se qualcuno mi chiedesse perché ritengo utile la pratica del judo, risponderei così: perché è l'arte dell' impiego controllato delle proprie risorse. E se qualcuno mi chiedesse se il judo può essere utile anche agli handicappati, risponderei che lo è doppiamente: perché l'handicappato dispone di minori risorse e quindi deve impiegarle meglio, e perché egli presenta generalmente una particolare disposizione a sfruttare ciò che ha. E parlo di qualsiasi tipo di handicappato, anche di quelli più sfortunati, menomati nelle loro capacità mentali. Anche questi, forse soprattutto questi, mostrano per lo più uno straordinario impegno nell'imparare, nel fare, nell'evolvere, nel conquistare, nell'utilizzare tutto quello che la sorte ha loro lasciato. Basta dar loro gli strumenti adeguati. E il judo è appunto uno di tali strumenti. Oserei dire che è uno dei più efficaci.
Dicevo prima che il judo è l'arte del migliore impiego delle proprie risorse. E' il caso di chiarire qui che attraverso questa pratica si può ottenere una sempre più perfetta utilizzazione di tutte le proprie risorse: fisiche, mentali e morali. Per quel che riguardale doti fisiche, la cosa è ovvia. Il judo insegna l'uso del corpo, di tutto il corpo, e ne esercita tutte le funzioni. Meno evidente forse la sua influenza positiva sulla mente. Ma se si riflette un poco su ciò che il judo richiede a chi lo pratica si comprende subito il suo valore di "allenatore" della mente. Prendiamo, per esempio, l'abitudine alla concentrazione, all'attenzione, alla decisione, alla rapidità delle risposte, all'intuizione. Tutto questo non può restare senza effetto sulla personalità di un individuo.
Direi però che la caratteristica più importante del judo è la sua qualità di disciplina morale. Secondo la definizione tradizionale il judo richiede "l'amicizia e la mutua prosperità". Per dirla in una sola parola, il judo è essenzialmente generosità. E' amicizia con i compagni, è solidarietà, è rispetto per l'altro, è capacità di dare, è altruismo. Sono doti che, forse anche inconsapevolmente, chi pratica judo costruisce dentro di sé.
Poi c'è l'altra parola, fra quelle che ho usato all'inizio del nostro discorso, che merita una riflessione. Ho parlato dell'impiego controllato delle proprie risorse. Ecco, il controllo è la base e l'impalcatura del judo. Poco a poco l'attitudine al controllo di sé e delle proprie azioni nasce e si consolida, inevitabilmente, in chi pratica quest'arte. Perché il controllo è l'origine dell'efficacia, del progresso, della tutela della propria e altrui integrità, del piacere di essere se stessi. E così il buon judoka impara sempre più a controllare le proprie azioni e i propri pensieri, e pertanto progredisce sulla strada della consapevolezza, della responsabilità e della civiltà.
Per questi motivi, ai quali ho potuto appena accennare, credo fermamente che la pratica del judo sia uno strumento di grandissimo valore per l'evoluzione della persona. Ancor più per coloro che, offesi da un handicap, mancano di qualcuno dei mezzi normalmente posseduti dai sani. Vorrei aggiungere che la mia opinione si fonda largamente sull'esperienza dei maestri che insegnano con amore e con passione questa nobile arte. Può darsi che siano pochi, costoro. Non so. So che ce n'è. Qualcuno ne conosco, e mi sento onorato della loro amicizia.
Marcello Bernardi ha praticato judo per trent'anni iniziando già ad età avanzata. Di lui si conosce molto, non sto qui a citare i suoi numerosi libri sull'educazione del bambino, ma certo questo del judo è un aspetto poco conosciuto. Eppure Bernardi ha spesso dichiarato "tutto quello che so l'ho imparato per metà dai bambini e per l'altra metà dal judo". Oggi lui e i suoi scritti sono la bandiera del movimento Judo-Educazione, la nostra bandiera.
Dunque facciamo judo a Verona, presso la sede di Kyu Shin Dojo due volte la settimana, incontrando problemi che l'educazione specialistica tende ad affrontare con un'educazione personalizzata, adattata alle difficoltà e al ritmo evolutivo di ogni individuo.
Come ben sappiamo, spesso sono necessarie tecniche pedagogiche particolari e, soprattutto nell'ambito del linguaggio, anche rieducatori specializzati. Tuttavia le qualità essenziali dell'educatore non consistono tanto nella conoscenza di dati psicologici e nell'applicazione tecnica, quanto nell'atteggiamento educativo di scoperta dell'Altro, nell'accettarlo completamente com'è, al fine di poterlo aiutare efficacemente; cosa che richiede una grande maturità e una capacità innata di rimettere tutto in discussione.
Il judo adattato per disabili necessita fondamentalmente di questo approccio, cosa che non impedisce in alcun modo al maestro di esprimere e di far amare i caratteri specifici della disciplina
Ho pensato di cominciare a tenere un diario delle osservazioni sui judoisti dell'AGBD. Inizialmente potrebbero esservi indicate notizie (dai genitori e dagli educatori) sulla loro personalità, su eventuali disturbi associati, storia medica e scolastica. Inoltre le prime osservazioni di carattere generale (in seguito si potrebbe definire una griglia specifica). In questa occasione vorrei segnalare ciò che è più facilmente osservabile, alcuni disturbi di matrice affettiva:
Su queste difficoltà influisce, com'è logico, in positivo o in negativo, l'atteggiamento dei genitori e l'atteggiamento segregativo, più o meno marcato, dell'ambiente sociale.
Mi sembra però che l'ambiente associativo in AGBD stia ben operando per limitare la superprotettività, per ben inserire nel tessuto sociale le persone e per fare in modo che le strutture non finiscano col rappresentare un confino-rifugio.
Relativamente alle difficoltà citate ribadisco, in accordo con le parole di Bernardi, che il judo può essere uno dei più validi strumenti. Il judo permette infatti un'acquisizione dinamica della conoscenza del corpo e della struttura spaziale fondata su sensazioni sperimentate, sul movimento, sulle necessità di compiere gesti precisi e coordinati, sull'imparare a cadere (e dunque a vincere una paura innata), sul difendersi se non sull'attaccare (cioè esprimere corporalmente un atteggiamento aggressivo), sul partecipare alla vita di un gruppo, anche simbolica.
Far parte di un gruppo, con caratteristiche e regole specifiche è proprio quello che proponiamo in concreto al nostro gruppo di judoisti. Vivendo la loro esperienza ricalcheranno quella di molti altri. Cominceremo a raccontarla nel prossimo numero del giornalino.
Claudio Sanna